Riflessione di Ignazio Sanna
L’arcivescovo Sanna rilegge il giorno dei defunti alla luce del pensiero del teologo Karl Rahner
Il contributo più completo di Karl Rahner (1904-1984) alla comprensione del morire cristiano è contenuto in due saggi “classici”: Sulla teologia della morte (1958) e Il morire cristiano (1976). Con questa breve nota, vorrei richiamare l’attenzione su un ruolo particolare che egli attribuisce all’esperienza della morte. In un articolo sulle vie di accesso per comprendere il mistero umano-divino di Gesù, infatti, egli considera l’esperienza della morte una di queste vie, accanto alla via dell’amore del prossimo e a quella della speranza in un futuro assoluto.
Nel collegare la via dell’esperienza della morte a quella dell’amore del prossimo, egli riflette sul fatto che l’assolutezza di un tale amore è messa in discussione proprio dall’eventualità della morte della persona amata. Infatti, come scrive Gabriel Marcel, dire ad una persona: io ti amo, equivale a dirgli: io voglio che tu non muoia mai, che tu viva sempre. Perché, allora, questa assolutezza e definitività dell’amore non sia messa in discussione occorre affermare l’esistenza di una persona, che garantisca di vivere in eterno. Cioè, l’esperienza della morte richiede che la persona amata viva in eterno. Gesù è la persona amata che vive in eterno.
L’esperienza della morte, però, mette in discussione anche la vita e l’esistenza della persona che ama. La precarietà della vita e la certezza e inevitabilità della morte afferiscono in modo uguale sia la persona che ama che la persona che è amata. Ci può essere, allora, nella storia e nella vita di chi ama, la speranza concreta che la morte non annulli definitivamente l’amore, ma lo faccia sbocciare nella beata assolutezza dell’amore di Dio e nella sua eternità?
Per Rahner, la risposta è affermativa. Questa speranza esiste, se esiste un uomo la cui “risurrezione”, intesa come compimento assoluto della vita, possa essere sperimentata nella fede come adempimento della nostra morte comune. Se esiste, cioè, un uomo che testimoni e documenti che la morte non è l’ultima parola del destino umano, ma solo la penultima; che documenti che la promessa di Dio è realtà e che quindi si costituisca come un portatore escatologico della salvezza.
Ora, questa speranza cristiana non può fondarsi sul possesso di sicurezze materiali, stigmatizzato dalle parole di Gesù nella parabola del ricco che accumula beni senza posa (Luca, 12, 20). La speranza cristiana, per converso, si fonda sulla certezza che quando non ci saremo più ci saremo ancora di più, e che la morte non è la scomparsa nel nulla, ma l’incontro definitivo con il Dio della vita. Essa viene alimentata dalla preghiera che mantiene viva nel nostro cuore e nel nostro affetto la presenza delle persone cha amiamo.
Il morire, per noi cristiani, trova il suo ultimo senso nella persona di Gesù. La Sacra Scrittura, infatti, ci assicura che “non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Ebrei 4, 15). I Vangeli riferiscono tre interventi miracolosi su altrettante persone morte: la figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), il figlio della vedova di Naim (Luca, 7, 11-17), l’amico Lazzaro di Betania (Giovanni, 11).
Davanti a questi morti, Gesù mostra una grande compassione umana che sfocia nel pianto per la perdita dell’amico, ma, allo stesso tempo, si manifesta come il Figlio di Dio. È vero, infatti, che i morti che richiama in vita non risorgono definitivamente, perché la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Naim e Lazzaro moriranno di nuovo. Però, Gesù, richiamandoli in vita, anche se temporaneamente, rivela in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, ossia la risurrezione per la vita eterna in Dio. I miracoli di Gesù, secondo l’evangelista San Giovanni, sono “segni” che rivelano la sua natura divina, e, in questo caso, il suo potere sulla morte fisica.
Tuttavia Gesù, pur essendo di natura divina, soffre davanti alla morte e l’affronta in tutta la sua drammaticità. San Marco scrive che nell’Orto degli Ulivi, Egli «cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte» (Marco 14, 33-34); «pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora» (Marco 14, 35-36). In altri termini, Gesù, provando l’esperienza della morte, col peso della sua umanità ne conferma la dimensione di oscurità e di dolore. Ma, allo stesso tempo, con la potenza della sua divinità la irradia con la luce dell’eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è l’alba d’un giorno senza tramonto, l’ingresso nella dimora della città eterna.
Per noi cristiani, la luce della fede illumina il pellegrinaggio terreno soprattutto nel momento della prova e il suo momento più forte è sicuramente la morte d’un nostro genitore, familiare, amico. Quando sentiamo dai media le notizie di morti in Ucraina, di morti di Covid-19, di morti in incidenti stradali, in catastrofi naturali, in episodi inspiegabili di violenza omicida, commentiamo: “si muore”, parlando in forma impersonale. Quando, però, muore nostro padre, nostra madre, un nostro amico, la percezione del mistero e del dolore cambia radicalmente, perché siamo coinvolti in prima persona.
Ma, proprio quando il lutto entra nelle nostre case dobbiamo dimostrare che la visione cristiana della vita e della morte motiva e orienta il nostro comportamento. Se la morte sopraggiunge alla fine d’una esistenza carica di anni e di gratificazioni, è facile considerarla come una conseguenza della natura umana e accettarla come il destino inevitabile. Se, invece, la morte colpisce i nostri affetti con la scomparsa prematura di familiari o amici, o peggio, ad opera della crudeltà e della malvagità dell’uomo, allora scatta la protesta e la ribellione interiore.
Ignazio Sanna è arcivescovo emerito di Oristano e presidente emerito della Pontificia Accademia di Teologia (Path)