Testimonianza preziosa per tutta la Chiesa - I martiri giapponesi


«Non erano militanti politici, non lottarono per difendere i loro diritti di uomini e di donne, non recriminarono contro un regime che negava loro anche il semplice esercizio della libertà religiosa. Furono solo uomini e donne di fede profonda e autentica». Così i vescovi giapponesi presentarono al mondo la beatificazione di padre Pietro Kibe e i suoi 187 compagni martiri, beatificati il 24 novembre 2008 a Nagasaki, in una liturgia concelebrata anche dal cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi. Domenica prossima, a undici anni esatti da quella beatificazione collettiva, Papa Francesco onorerà anche loro, nella cerimonia di omaggio che si svolgerà sempre a Nagasaki, presso il memoriale dei martiri eretto sulla collina di Nishizaka.

I martiri beatificati nel 2008 si aggiungevano ai 42 santi e ai 395 beati giapponesi già elevati agli altari per martirio dopo il tempo delle grandi persecuzioni del XVI e XVII secolo. I primi erano stati san Paolo Miki e i suoi 25 compagni martiri, beatificati da Papa Urbano VIII già nel 1627 e canonizzati da Papa Pio IX nel 1862, ai quali è dedicato il monumento-memoriale di Nagasaki.

I 188 martiri beatificati nel 2008, nella prima cerimonia di beatificazione celebrata in terra giapponese, a eccezione di quattro sacerdoti e un religioso, erano tutti laici: militari, contadini, commercianti, domestici, coppie di sposi, famiglie intere. Tutti uccisi tra il 1603 e il 1639, per non aver abiurato la fede cristiana. Tra loro, 21 bambini fino a 6 anni, nove fanciulli e adolescenti tra i 7 e i 15 anni. Gente come Tekla Hashimoto, appesa alla croce e bruciata con tre dei suoi sei bambini. Gli atti della sua passione raccontano che quando la piccola Caterina cominciò a piangere, perché non riusciva più a vedere la mamma per il fumo, lei rassicurò la bambina dicendole di non aver paura, «che presto vedremo tutto chiaro».

A quel tempo, in cui il potere aveva scelto di chiudere il Paese a ogni influenza esterna, in Giappone si contavano circa 300 mila cattolici, che avevano incontrato il cristianesimo prima grazie ai gesuiti, con san Francesco Saverio, il grande apostolo d’Oriente amico di sant’Ignazio di Loyola, e poi anche grazie ai francescani.

All’inizio, il cristianesimo del Sol Levante aveva conosciuto un rapido sviluppo, fino al 1587. In quell’anno era iniziata la persecuzione cruenta, conclusasi nel 1639 con l’interdizione totale del cristianesimo su tutto il territorio giapponese e l’espulsione di tutti i missionari.

I martiri giapponesi si contarono a decine di migliaia. Dopo la persecuzione, il piccolo gregge cattolico fu falcidiato dalle apostasie di quelli che abiuravano per paura. I discendenti dei cristiani per cinque generazioni erano costretti una volta l’anno a calpestare l’immagine di Gesù e di Maria, perché fosse sicuro che la conversione forzata al buddismo non avesse “ricadute”.

Eppure, duecento anni dopo, si racconta che il venerdì santo del 1865, migliaia di kakure kirisitan, “cristiani nascosti”, sbucarono dai villaggi e si presentarono a Nagasaki agli stupiti missionari venuti da Occidente, che avevano da poco riavuto accesso in Giappone. In tutto quel tempo, migliaia di battezzati erano rimasti senza sacerdoti per due secoli, ma erano tutti validamente sposati per la Chiesa, e per tutto quel tempo avevano assicurato a tutti i loro defunti un funerale cattolico. Nel Giappone di oggi, i cristiani godono di una confortevole libertà religiosa, non c’è nessuna persecuzione conclamata. Eppure proprio adesso riproporre le vicende dei martiri giapponesi — come torna a fare Papa Francesco — può offrire preziose suggestioni all’estremo Occidente giapponese, e non solo.

Davanti alla crisi globale che incombe, la società nipponica vede affiorare fragilità incubate nel ventre del suo iper-sviluppo. Il declino anche demografico è iniziato nel 2005. I tassi di natalità continuano a essere debolissimi, mentre rimangono alti quelli dei suicidi e continuano a manifestarsi fenomeni preoccupanti come l’Hikikomori, l’isolamento volontario scelto da adolescenti e giovani che si ritraggono da ogni contatto sociale (deriva che ormai ha da tempo superato i confini giapponesi, e si registra anche in molti altri Paesi economicamente avanzati). Davanti a un simile scenario, nessun discorso sui valori, nessuna retorica sull’etica necessaria per garantire gli standard della convivenza civile è sufficiente a cambiare le cose.

La Chiesa in Giappone non rivendica spazi di propaganda per “vendere” meglio il proprio prodotto. Sceglie la strada, feconda e vitale, della pura e inerme testimonianza. E continua a custodire e raccontare le storie dei suoi martiri. In loro c’era solo gratitudine inestinguibile per il dono sorprendente che avevano ricevuto. E la loro vicenda può apparire attuale e confortante, non solo in Giappone.

La testimonianza dei martiri e dei “cristiani nascosti” giapponesi è suggestiva per tutti, e non tanto per fomentare dibattiti intellettuali sullo “statuto” dei laici nella Chiesa, sempre esposti alla tentazione di “clericalizzare” i battezzati non chierici. Piuttosto, la loro vicenda ricorda a tutti che in Giappone, come nel resto del mondo, la vita cristiana può crescere e germogliare solo in virtù della grazia. Lì, per secoli, il dono della fede si è trasmesso di generazione in generazione dentro comunità senza pastore e senza Eucaristia, attraverso i gesti più semplici e abituali: la preghiera, la devozione ai santi, le opere gratuite della carità. Nessuno sforzo di programmazione missionaria, nessuna strategia di evangelizzazione.

Anche per questo la testimonianza dei martiri giapponesi appare ancora più preziosa nel tempo presente, per tutta la Chiesa.

di Gianni Valente