Nel contesto di un piccolo volume (“Un cattolicesimo diverso”, EDB, 2019), nel quale Gh. Lafont presenta l’ “ultima versione” della sua preziosa sintesi teologica, il monaco francese propone alcune pagine intense, esplicitamente dedicate al tema della autorità femminile nella Chiesa, elegantemente intitolato Nota sulla chiamata delle donne al carisma del governo. Per comprendere bene il testo, che si trova alla fine del III capitolo, e poco prima delle conclusioni, bisogna avere almeno una idea di ciò che lo precede. Pertanto vorrei procedere ad esporre in estrema sintesi i contenuti fondamentali del volume (1), per poi esaminare nel dettaglio i passaggi dedicati alla ordinazione femminile (2), che si occupano della questione della forma (3), della verità “infallibile” (4), e del riferimento alla vergine Maria (5). Non è difficile comprendere che si tratta di un testo assai prezioso per sviluppare oggi un serio dibattito sulla posizione della donna nella Chiesa.
1. La struttura del volumetto
Il volume, come dice il suo autore nella Introduzione, è una riflessione su quattro elementi che caratterizzano un cattolicesimo diverso rispetto a quello classico. Tali elementi, inaugurati formalmente dal Concilio Vaticano II sono questi: il sacrificio non è una pratica legata al male, ma alla natura stessa del reale e all’amore che ne è la verità; l’eucaristia non è una ripetizione dell’unico sacrificio, ma la sua “memoria attiva”; il ministero nella Chiesa è un dono dello Spirito santo, radicato in un carisma specifico; il nome di Dio più conforme al Vangelo è Amore all’eccesso, o Misericordia. Sulla base di queste 4 novità il testo si sviluppa in 3 parti: nella prima parte, muovendo proprio da questo “amore originario”, viene presentato il “sistema nuovo”, che nella seconda parte viene confrontato con la presentazione “classica” della fede cristiana, per arrivare, nella terza parte, a configurare il “buon uso dell’eucaristia” e il “buon uso dell’autorità” come criteri di identità della Chiesa contemporanea. In questo contesto del terzo capitolo incontriamo le pagine che ora vorrei presentare con maggior precisione.
2. Chiamata delle donne al carisma del governo
Lafont “non senza un certo timore” affronta la questione della ordinazione della donna. Da un lato ribadisce che la posizione della Santa Sede appare chiara e netta, escludendo questo tipo di ordinazione, perché Gesù stesso lo avrebbe escluso e la Chiesa non avrebbe il potere di cambiare su questo punto. Ma per l’autore, nonostante tutto ciò, esiste lo spazio per un “esercizio di scuola”, senza pretendere immediate conseguenze operative, nel quale tuttavia poter esercitare il pensiero e mettere alla prova i dati storici e sistematici della tradizione cattolica.
3. La questione della forma
Il primo punto su cui Lafont applica il proprio pensiero è una questione “formale” che può diventare sostanziale. A proposito della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis l’autore si chiede: “Perché Giovanni Paolo II non si è espresso con tutta la chiarezza desiderabile? Perché non ha adottato le forme canoniche di una definizione dottrinale?” (63). Contrariamente a quanto operato da papa Pio IX e da papa Pio XII, per la definizione della Immacolata e della Assunta, Giovanni Paolo II ha adottato “una lettera che contiene certo un testo molto forte, ma che non è una definizione dogmatica” (64). In questo caso non si tratta di una questione secondaria. “Quando si tratta di una definizione che comporta l’obbligo di credere, sotto pena di essere separato dalla Chiesa, il legislatore è moralmente tenuto a una totale chiarezza, sia nell’enunciato di ciò che deve essere creduto, sia nella dichiarazione di autorità. Il magistero non ha diritto di lasciar passare un vizio di forma. La forma ex cathedra non è facoltativa” (64). Se è vero che vi è un magistero definitivo anche del magistero ordinario, è altrettanto vero che molte di queste decisioni, che si credevano irreformabili, e che forse sono state utili al loro tempo, hanno perso la loro autorità. “Quali che possano essere state le intenzioni personali di Giovanni Paolo II, resta il fatto che, non avendo usato la forma solenne, ha lasciato un po’ socchiusa la porta a ricerche teologiche miranti a venire a capo dei dubbi che sussistono”(64).
4. La verità “infallibile”
Tuttavia, dopo questa domanda di carattere formale, Lafont pone una seconda questione, ancora più decisiva: “è possibile, in una materia nella quale è coinvolta la storia, giungere a una verità infallibile?”(65). Il problema non è semplice, ma è chiaro che la “verità pratica” e la “verità storica” non sono in alcun modo afferrabili una volta per tutte. Il giudizio sul “soggetto femminile” non può essere oggetto di una “definizione”, proprio perché tale soggetto non è determinato solo da un profilo naturale, ma ha una storia, scaturisce da un processo di autocomprensione e di sviluppo che non può essere anticipato astrattamente o universalmente. Un esempio, fornito opportunamente da Lafont, sembra utile per comprendere meglio questa prospettiva. Egli infatti presenta un testo di Pio XII, del 1957, in cui il papa attribuiva “alla volontà di Gesù” il fatto di aver dato agli apostoli “un duplice potere”, ossia il potere d’ordine e il potere di giurisdizione. Lafont osserva che questa “dottrina”, considerata allora irreformabile, meno di dieci anni dopo fu sostituita dal Concilio Vaticano II con una lettura completamente diversa, che riconduceva ogni autorità alla ordinazione e faceva dell’episcopato la pienezza del sacramento.
Questo esempio sembra illuminare di una luce particolare la questione della “autorità femminile”. Scrive infatti con grande chiarezza Lafont:
“Nell’attuale penuria di sacerdoti, capita di affidare a donne grandi responsabilità, in passato detenute da sacerdoti, per cui ora si comprende che possono essere esercitate da laici o da religiose. Ma capita che si affidino loro parrocchie, ossia intere comunità cristiane. In altri termini, si conferisce loro un ‘potere di giurisdizione’ (fosse pure sotto la responsabilità nominale di un ecclesiastico) senza il potere di ordine corrispondente ed esse possono fare tutto nella Chiesa, tranne celebrare il sacrificio spirituale della loro comunità, cosa che farà, quando lo si troverà, un sacerdote proveniente da altrove e senza alcun legame con la comunità. Si ritorna così alla dicotomia classica? Si conferisce loro una missione sacramentale, ma senza il sacramento e la grazia che vi è annessa” (66-67).
E’ chiaro che la precarietà di queste soluzioni, che reintroducono vecchie distinzioni solo in caso di “soggetto femminile”, più che come rimedi, appaiono come ulteriori problemi. Che lasciano insolute le questioni di fondo e perciò non escono dall’imbarazzo.
5. La vergine Maria
Anche il riferimento a Maria non è affatto risolutivo. Maria è assolutamente unica ed è modello per tutti, per uomini e donne. “La sua intelligenza, la sua forza, la sua missione sono incomparabili; ella è di un ordine diverso. E’ modello per ogni cristiano, uomo o donna. La missione delle donne cristiane si trova altrove e il non-sacerdozio di Maria non mi sembra in nulla esemplare per le donne in quanto donne. Ho paura che si proponga alle donna una pia immagine oleografica di povera-piccola.giovane-donna-al-focolare in un ambiente rurale di altri tempi” (67). Non è dunque in una astratta composizione di “principio petrino” e di “principio mariano” che si possa affrontare davvero la questione della autorità della donna nella Chiesa.
Non resta che una conclusione:
“Se il sacerdozio è un carisma riconosciuto e ordinato, chi può decidere che le donne non possono avere questo carisma? Nella Chiesa cattolica bisogna ritenere che Gesù stesso ha escluso le donne da questo carisma? Né gli uomini né le donne sono sacerdoti nel senso sacrificale dell’Antico testamento. Gesù stesso non lo era…Gesù è l’unico sacerdote del suo sacrificio unico. La Chiesa che è il suo corpo entra in questo sacrificio. Dei cristiani sono chiamati, in questo corpo, a servire questo sacrificio spirituale. Un solo Signore, un solo mistero pasquale. Un solo Spirito. Io credo che non ci sia posto per la discriminazione” (67).
6. Breve conclusione su autorità e pensiero
Come appare con chiarezza, Lafont esercita responsabilmente il compito di “pensare” cui è chiamato il teologo, ogni teologo. Lo spazio per il pensiero, anche di fronte ai testi più autorevoli, resta per il teologo come oggetto di un dovere: poiché i fatti, pur con tutta la loro autorità, non sono mai, in quanto tali, delle ragioni sufficienti. Per questo Lafont ricorda una bella espressione del Card. Martini: “Non ho paura delle persone che non credono; ho paura delle persone che non pensano”. Un uso disinvolto di una “teologia d’autorità” rischia sempre di ridurre le ragioni alla sola evidenza dei fatti. Questo, come dice bene S. Tommaso d’Aquino, non è senza rischio: “Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”. Se l’assenso alla esclusione della donna dal ministero ordinato dovesse avere, come prezzo, la opaca certezza di “teste vuote”, avremmo ottenuto un piccolo guadagno di corto respiro, che non tarderebbe a capovolgersi, quam celerrime, in una perdita grave o forse in un ritardo quasi irrecuperabile.
(di Andrea Grillo, Munera Blog)