A colloquio con Souraya Bechealany, segretario generale del Consiglio delle Chiese del Medio oriente
A colloquio con Souraya Bechealany, segretario generale del Consiglio delle Chiese del Medio oriente. Non sono mai le persecuzioni a spegnere la fede
(Gianni Valente) Se si chiede a Souraya Bechealany cosa conviene fare se si hanno a cuore i fratelli cristiani del Medio oriente, nel tempo di tribolazione che molti di loro stanno vivendo, lei non parla di campagne mediatiche di sensibilizzazione sui diritti delle minoranze o di raccolte fondi per ricostruire case e chiese. Suggerisce di ascoltare il sensus fidei del popolo di Dio. E ricorda che non sono mai le persecuzioni a far morire la Chiesa di Cristo. Il suo sguardo appassionato sulle vicende e i travagli delle Chiese in quella regione oggi lo pone a servizio del Consiglio delle Chiese del Medio oriente, l’organismo ecumenico in cui dal gennaio 2018 riveste l’incarico di segretario generale.
La professoressa libanese Souraya Bechealany, cristiana maronita, insegna teologia presso l’Université Saint-Joseph di Beirut. ll Consiglio delle Chiese del Medio oriente (Middle East Council of Churches, [Mecc]), fondato nel 1974 a Nicosia e attualmente con sede a Beirut, ha lo scopo di servire la comunione delle comunità cristiane mediorientali e favorire il superamento di contrasti di matrice confessionale. L’intervista è stata raccolta a Beirut, presso Université Saint-Joseph, in occasione di un viaggio realizzato grazie all’Opera romana pellegrinaggi. In Occidente tanti dicono che le violenze dei jihadisti del sedicente stato islamico stanno spegnendo la presenza cristiana in Medio oriente.
Io non penso che sarà Daesh a far morire il cristianesimo in Medio oriente. E tantomeno l’islam. Quando il cristianesimo in alcune aree viene meno, ci sono sempre altre ragioni e altri fattori, più intimi.
Non ci sono forse sofferenze e persecuzioni per i cristiani?
Sì, ci sono persecuzioni. Ma i musulmani non sono tutti Daesh. E i cristiani del Medio oriente non sono tutti perseguitati. E poi, se Daesh ci ammazza, fa di noi dei martiri. Gesù ci abbraccia come suoi martiri, e questo fa crescere e brillare la Chiesa della luce di Cristo. È sempre stato così.
Adesso, in Occidente, si parla dei cristiani d’Oriente soprattutto per organizzare campagne e raccolte fondi che li aiutino a rimanere nelle loro terre. Come vedete questo fenomeno?
Le autentiche opere di carità sono sempre buone. Ma a volte c’è chi si presenta come vittima, e guarda all’Occidente come a un bancomat dove andare a raccogliere soldi. C’è chi appare occupato soprattutto a gestire le risorse. E a mio giudizio, il permanere dei cristiani in Medio oriente non dipende innanzitutto dalle risorse. È illusorio pensare che si possa frenare il venir meno delle comunità cristiane inviando e gestendo le risorse. Così si rischia di vivere una morte senza risurrezione. Non si ascolta la voce di Dio, quello che Lui ci sta dicendo in questo tempo. E non si segue più nemmeno il sensus fidei del popolo di Dio.
Quasi un anno fa Papa Francesco ha convocato a Bari tutti i capi delle Chiese del Medio oriente per riflettere e pregare insieme davanti alle tribolazioni dei cristiani mediorientali. A quell’incontro c’era anche lei. Cosa è successo di rilevante in quel giorno?
È stata un’esperienza di sinodalità vissuta. Ero l’unica donna, e l’unica laica. La tavola della riunione, predisposta nella cattedrale, era bianca e rotonda, e i posti erano tutti uguali. Non c’erano postazioni di maggiore o minor prestigio. E il Papa era proprio di fronte a me.
E il suo intervento?
Sono stata l’ultima a parlare, e ho parlato 2 minuti e mezzo, meno del tempo che avevo a disposizione, perché si era fatto tardi. I giovani con cui mi ero incontrata prima di andare a Bari mi avevano detto: fai sapere al Papa e ai patriarchi che noi vogliamo l’unità, la viviamo già. Ho parlato a nome dei giovani, e del loro sensus fidei.
C’è chi dice che dopo l’incontro di Bari il diavolo si è scatenato. Sono arrivati nuovi conflitti tra le Chiese, soprattutto tra le Chiese ortodosse.
In effetti, a Bari c’era stata quasi la visione, la prefigurazione della piena unità. I capi delle Chiese avevano iniziato un lavoro di sinodalità in Medio oriente, e io ho anche detto che il Consiglio delle Chiese del Medio oriente è pronto a portare avanti questo lavoro, perché è un organismo ecclesiale nato proprio per questo, per favorire la sinodalità. Adesso, anche noi siamo condizionati dalle lacerazioni tra le Chiese ortodosse.
Qual è la struttura del Consiglio e come funziona?
Vi aderiscono una trentina di Chiese e comunità ecclesiali, appartenenti a quattro “famiglie” diverse: quella cattolica, quella ortodossa, quella ortodossa orientale e quella evangelica. Il comitato esecutivo è formato da sei rappresentanti per ogni “famiglia” ecclesiale, e si riunisce due volte all’anno. Il lavoro quotidiano è portato avanti dalla segreteria generale, articolata in quattro dipartimenti: quello ecumenico-teologico, quello della diaconia — che si occupa di tutte le iniziative di carità, soccorso umanitario, giustizia sociale e tutela dei diritti — quello della comunicazione e delle relazioni pubbliche e quello per il servizio dei rifugiati palestinesi. Adesso, per fare un esempio, abbiamo una cinquantina di persone che lavorano in Siria, Libano e Giordania a sostegno dei profughi siriani. Di queste persone, quaranta operano in Siria.
Quali sono i criteri da seguire e favorire nel rapporto con gli islamici?
Il Mecc ha sempre posto tra le sue priorità il dialogo islamo-cristiano. Questo dialogo resta importante, ma per il Consiglio delle Chiese del Medio oriente tale dialogo deve tradursi in atti concreti, attraverso i quali cristiani e musulmani possano operare insieme a vantaggio della libertà umana, attraverso la cittadinanza che garantisce l’uguaglianza per tutti. Questo è oggi prioritario, proprio per uscire dalla spirale di queste guerre continue contro l’uomo e l’umanità che dilagano nella nostra regione. In questo tempo, a mio giudizio, non serve più di tanto dialogare secondo gli schemi del passato. Adesso bisogna puntare sulla cittadinanza.
La questione della “cittadinanza” è diventata per lei cruciale anche nei rapporti tra diverse comunità di fede? E perché?
Se i musulmani riconoscono che noi tutti abbiamo uguali diritti come cittadini, qualsiasi sia la nostra appartenenza religiosa, questo porta con sé il fatto che tutti i cittadini vanno considerati e trattati senza discriminazione e rispettando la loro piena uguaglianza, anche sul piano religioso.
Quali sono e da dove arrivano i problemi e gli ostacoli maggiori?
Io credo che la crisi non è tra cristiani e musulmani. La crisi è dentro l’islam, perché l’islam è chiamato ad andare avanti nella sua maniera di accogliere l’alterità e la differenza come una ricchezza, anche all’interno dello stesso islam. Senza questa accoglienza dell’alterità e della diversità religiosa, etnica e culturale, l’islam vivrà una crisi interiore.
A cosa si riferisce?
Il terrorismo è anche contro i musulmani, colpisce proprio loro per primi. Eppure il terrorismo, in questi anni, ha parlato tante volte a nome dell’islam. I musulmani devono dire forte a tutti i terroristi: quello che voi fate non è a nome del Corano.
Quale aiuto possono offrire i cristiani su questo punto, che tocca gli islamici su questioni nevralgiche?
Molti musulmani, anche tra gli accademici, hanno ben chiaro che questa è la strada da prendere, senza esitazioni. E questi musulmani hanno bisogno di noi. Noi cristiani in Medio oriente non siamo la “minoranza” che ha bisogno di essere protetta dall’islam. Adesso sono piuttosto questi musulmani ad aver bisogno di noi cristiani, per procedere insieme nel cammino. E noi abbiamo il dovere e la missione di sostenerli, anche se i frutti si cominceranno a vedere magari tra 50 anni.
Qualcosa si muove?
C’è stato il documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi dal Papa e dal grande imam di Al Azhar, il quale per arrivare a firmare quel documento, per arrivare fin lì, aveva bisogno di camminare insieme al Papa.
Come si fa a condurre insieme dialogo con l’islam, quando quello stesso dialogo è una questione che divide, anche all’interno delle singole comunità cristiane?
Prima occorre domandarsi: cosa vogliamo, dove vogliamo arrivare nel dialogo con gli islamici? Ci serve per conoscere l’islam, o per sapere cosa pensano loro di noi, o noi di loro? Secondo me, il dialogo serve a tutto questo, ma non solo a questo. Il dialogo è fecondo se aiuta tutti a sperimentare cos’è l’alterità, e approfondire la nozione di alterità. Il dialogo serve affinché tutti, compresi i musulmani, possano riconoscere e abbracciare l’alterità, e possano camminare in questa alterità, in questa diversità, condividendo la comune appartenenza alla famiglia umana. E per far questo, c’è una strada che facilita il cammino.
Qual è, questa strada?
La via della cittadinanza per tutti. Con i musulmani non bisogna parlare ancora dei nostri pensieri su Dio, delle nostre definizioni di Dio, ma di come vediamo l’uomo. Se noi riconosciamo che l’uomo è creato a immagine di Dio, e che ogni uomo ha la dignità che Dio gli ha donato, seguendo questa strada insieme si può arrivare più lontano. Questa è teologia che serve, e che dobbiamo approfondire. Per provare anche noi cristiani a guardare lo stesso islam come lo vede Dio. A guardarlo con lo sguardo di Dio.
L'Osservatore Romano, 6-7 giugno 2019.