Lo stile del dialogo. Paolo VI e la missione

Possiamo ripercorrere l’idea di missione in Paolo VI in due momenti: il “dialogo” stile della missione (Ecclesiam suam, 1964); l’“evangelizzazione” forma della Chiesa (Evangelii nuntiandi, 1975). Sono le due colonne di un arco che racchiude quasi tutto il pontificato di Papa Montini. La scelta del tema della prima lettera enciclica di Paolo VI era delicata. Divenuto Papa nel giugno del 1963, dopo la morte di Papa Giovanni che aveva commosso il mondo, la prima grande decisione del nuovo Pontefice fu quella di continuare il concilio. Per questo si dovette attendere il 6 agosto del 1964 perché l’enciclica vedesse la luce. Che tema svolgervi? Di solito la lettera inaugurale del pontificato viene considerata programmatica.

Il testo era maturato dopo la seconda sessione conciliare del 1963, non priva di contrasti e dai risultati esigui: l’unico testo notevole approvato era stato la costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum concilium. La terza sessione si prevedeva cruciale: la posta in gioco era appunto la costituzione sulla Chiesa. Si comprende la cautela con cui il Papa anticipa il tema. Paolo VI fa una scelta audace: colloca il tema della Chiesa nel cono di luce del dialogo. Il documento è conosciuto così come l’“enciclica del dialogo”. Ecco come la presenta Paolo VI stesso nel discorso del 6 agosto 1964: in essa «diciamo quello che noi pensiamo debba fare oggi la Chiesa per essere fedele alla sua vocazione e per essere idonea alla sua missione. Parliamo cioè della metodologia che la Chiesa, a parere nostro, deve seguire per camminare secondo la volontà di Cristo Signore. Possiamo forse intitolare questa enciclica: le vie della Chiesa». La ragione prossima di questa parola “dialogo” (che ritorna cinquantasette volte nell’enciclica) sorge dalla volontà precisa del Papa di lasciare la libertà al concilio, ma insieme di richiamarne quasi l’atmosfera o, forse meglio, lo stile che deve animarlo. 
Però questa motivazione immediata si eleva a indicare il «dialogo stesso come la via spirituale, morale e apostolica della missione della Chiesa»: non si dovrebbe definire, dunque, un’enciclica sul dialogo, ma una riflessione sullo stile dialogico dell’essere e della missione della Chiesa. Potremmo dire che la parola “dialogo” non definisce una tattica, né una strategia della Chiesa per ridurre la distanza che la coscienza cristiana, in particolare cattolica, sperimenta con la modernità, ma è la via stessa della Chiesa, la sua forma riconoscibile, il suo stile inconfondibile. 

Montini la percepisce come la “vocazione” profonda del suo stesso pontificato. È lo “stile” della Chiesa, inteso come «una maniera di abitare il mondo» (Maurice Merleau-Ponty). Chi ha letto Paolo VI. Il coraggio della modernità, il bel libro di Giselda Adornato, resta colpito come dal 1964 al 1975, l’arco temporale delimitato dai nostri due testi, Montini accompagnerà sempre un pronunciamento importante del suo pontificato con un gesto di prossimità al mondo contemporaneo: la visita e il discorso all’Onu, il viaggio in Terra santa e l’incontro con il patriarca Atenagora, il viaggio in India con il dono della tiara, per non citare che i più significativi. 

Le “vie della Chiesa” sono le forme di quel dialogo con cui essa mette in contatto l’umanità con la sorgente viva della fede e rende possibile il suo incontro con Cristo. La coscienza che il “dialogo” è lo stile del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno non solo disegna l’architettura dell’enciclica, ma definisce anche la natura e il compito della Chiesa. Si potrebbe quindi concludere che l’enciclica, e prima ancora il pontificato di Montini, mette in luce il carattere “dialogico” dell’essere e della missione della Chiesa. La Chiesa è “dialogo” tra Cristo e il mondo: il luogo di questo incontro è la coscienza personale e collettiva degli uomini. 

Sullo sfondo di questa preoccupazione, Paolo VI si mette in rapporto col mondo moderno tratteggiato con grande finezza nella sua dipendenza e, talvolta, nella sua alternativa al cristianesimo: «Una parte di questo mondo, come ognuno sa, ha subito profondamente l’influsso del cristianesimo e l’ha assorbito intimamente più che spesso non si avveda d’esser debitore delle migliori sue cose al cristianesimo stesso, ma poi s’è venuto distinguendo e staccando, in questi ultimi secoli, dal ceppo cristiano della sua civiltà; e un’altra parte e la maggiore di questo mondo, si dilata agli sconfinati orizzonti dei popoli nuovi, come si dice...» (Ecclesiam suam, 14). La conclusione però dispiega la parabola di un possibile “scambio simbolico” con la modernità: «tutto insieme è un mondo che non una, ma cento forme di possibili contatti offre alla Chiesa, aperti e facili alcuni, delicati e complicati altri, ostili e refrattari ad amico colloquio purtroppo oggi moltissimi» (ibidem). 

Il dialogo è desiderato come un “amico colloquio”, nella scia del colloquium salutis che troverà splendida illustrazione nel memorabile n. 2 della Dei verbum: «Con questa Rivelazione, infatti, Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé». Il dialogo è dunque l’admirabile commercium tra la gloria di Dio e l’uomo vivente. Non è solo una strategia, ma è l’incontro che fa entrare gli uomini nel cuore della vita di Dio. Non teme l’umanità, perché sa che il divino la feconda e la esalta nella storia di Gesù. Non è solo un metodo, ma è il roveto ardente dell’incontro tra l’uomo e Dio.

(Franco Giulio Brambilla) 
L'Osservatore Romano, 13-14 novembre 2018