«È un dato di fatto che le persone trascorrono sempre più tempo sui social media, e molti si chiedono giustamente se ci si connetta in rete in modo utile, oppure si consumino semplicemente aggiornamenti banali a scapito del tempo che si potrebbe dedicare ai propri cari».
Comincia così un lungo articolo dal titolo «Domande difficili: passare il nostro tempo sui Social fa male?», scritto da David Ginsberg e Moira Burke, entrambi ricercatori di Facebook che rispondono a molte delle critiche sull’uso dei social emerse dal dibattito pubblico. Ma non è la prima volta che impiegati o ex impiegati del colosso californiano facciano un mezzo “outing” denunciando in qualche modo i limiti delle reti sociali.
Già Sean Parker, fondatore di Napster ed ex presidente della multinazionale, aveva sostenuto che Facebook è strutturato per trarre vantaggio dalle fragilità psicologiche delle persone. Antonio Garcia-Martinez, ex manager di Facebook e autore di diversi saggi sull’argomento ha più volte ripetuto che l’azienda nasconde di proposito la sua reale abilità di condizionare le persone.
Ginsberg e Burke fanno invece una analisi dei pregi e difetti dell’uso dei social partendo da diversi studi scientifici. Ci ricordano per esempio che lo psicologo Sherry Turkle afferma che i telefoni cellulari ridefiniscono le relazioni moderne, rendendoci «da soli stando insieme». Interessanti anche le analisi sugli adolescenti dello psicologo Jean Twenge, che nota un aumento della depressione adolescenziale direttamente proporzionale all’aumento dell’uso della tecnologia.
Ovviamente, secondo gli autori, non mancano gli aspetti positivi. Lo studio degli spazi pubblici del sociologo Keith Hampton suggerisce che le persone trascorrono più tempo all’aperto ora che non dieci anni fa e che i telefoni cellulari sono maggiormente usati da coloro che spendono comunque gran parte del proprio tempo da soli.
«Vogliamo che Facebook sia un luogo in cui interagire in modo significativo con amici e familiari, migliorando le relazioni offline. Dopotutto, questo è ciò che Facebook ha sempre fatto», affermano nel lungo post. Per corroborare questa affermazione citano diversi studi, tra i quali una ricerca che afferma che tutto dipenderebbe da come viene utilizzata la tecnologia. Per esempio, sui social media possiamo scorrere passivamente quello che appare sul nostro schermo, proprio come si fa spesso con lo sguardo catatonico perso davanti la tv, o interagire attivamente con gli amici: pulsanti di approvazione (Like) messaggistica e commenti vari ai post altrui. «Proprio come nella realtà — scrivono i ricercatori di Facebook — interagire con le persone a cui tieni può essere utile, mentre semplicemente osservare gli altri “da bordo campo” può farti sentire peggio».
In questo c’è certamente del vero ma non una sola parola sul fatto che nella vita reale la gente commenta e approva a prescindere dal fatto che l’altra persona ci approvi (o ci “segui”) a sua volta, perché non si può glissare sul fatto che il maggior numero di like vengono collezionati da coloro che a loro volta distribuiscono like (basta aprire un account Instagram per capirlo): insomma sia il commento che l’approvazione fatti online soccombono alla norma non scritta del do ut des, che raramente detta legge invece in un dibattito pubblico, fosse un’aula di scuola, di università o anche al bar.
Il male secondo gli autori sono piuttosto le “notizie” consumate passivamente: leggere ma non interagire con le persone. Ci permettiamo di sostenere che su questo davvero non ci sono prove, tanto che l’affermazione contraria suona infatti altrettanto plausibile: rispondere a commenti inappropriati o peggio insulti fa stare molto peggio, come sanno bene i tanti personaggi pubblici che con i social hanno chiuso ogni rapporto pena la propria salute mentale.
In breve, concludono gli autori, «la ricerca e altre pubblicazioni accademiche suggeriscono che tutto dipende da come si utilizzano i social media», un’affermazione che può apparire uno scarico delle colpe sugli utenti non fosse che i ricercatori aggiungono anche che «Facebook sta lavorando perché il nostro tempo online venga speso per interazioni sociali significative, e per trovare nuovi modi per ottenere un impatto positivo sulla vita delle persone». Gli autori affrontano anche il problema della distrazione digitale e l’impatto che la tecnologia ha sui più piccoli.
«Sappiamo che le persone sono preoccupate di come la tecnologia influisce sulle nostre capacità di attenzione e sulle nostre relazioni, così come sugli effetti sui bambini nel lungo periodo. Siamo convinti che queste sono domande estremamente importanti e abbiamo ancora molto da imparare», scrivono nel loro post. Non a caso Facebook ha promesso di stanziare un milione di dollari per una ricerca rivolta a capire meglio il rapporto tra tecnologie dei media, sviluppo giovanile e benessere.
«Stiamo anche facendo investimenti per comprendere meglio la distrazione digitale e i fattori che possono allontanare le persone dalle importanti interazioni faccia a faccia»: detta da due importanti ricercatori proprio di quell’azienda che il faccia a faccia ha contribuito grandemente a ridurlo, questa affermazione dovrebbe far riflettere profondamente.
Armi di distrazione di massa
«Se un servizio è gratis, allora il prodotto sei tu» recita un adagio ormai molto comune nella Rete. Un dato acquisito a livello teorico ma, di fatto, una realtà di cui non è facile avere piena consapevolezza. Effetti collaterali negativi compresi. A questo tema «il venerdì» di «Repubblica» ha dedicato un dossier di approfondimento in cui Riccardo Staglianò intervista Tristan Harris, una sorta di guru della disconnessione programmata, «la cosa più vicina a una coscienza che abbia la Silicon Valley», come l’ha definito la rivista statunitense «The Atlantic». Harris è un ingegnere trentenne che, dopo aver venduto la sua nuova impresa nel 2011 è entrato a Google, scrivendo il saggio A Call to Minimize Distraction & Respect Users’ Attention.
Negli anni successivi si è dedicato allo studio di questo tema, convinto che la diffusione del digitale stia diventando una fonte di disagio per molte persone. Il problema — scrive Staglianò nel suo articolo, intitolato «Mi pento di tutti i miei like» — è ben più vasto della somma delle sue parti (la posta elettronica invadente, i gruppi di conversazione a cui qualcuno ci ha proditoriamente iscritto, le notifiche delle applicazioni e via interrompendo). È sociale, politico in senso letterale, e ha a che fare con i modi in cui le piattaforme digitali estraggono valore dai loro utenti. In altre parole riguarda l’economia dell’attenzione, in cui i pubblicitari si contendono ferocemente, anche solo per qualche minuto, il nostro spazio mentale, per venderci indifferentemente prodotti o candidati. Per dirottare il nostro flusso di pensieri e portarlo dalla loro parte, che lo vogliamo o no, che ce ne accorgiamo o meno. Per dimostrare che non si tratta di allarmismo esagerato, basta tenere presente il fatto che solo Facebook ha due miliardi di iscritti, che si connettono anche oltre cento volte al giorno. La pars destruens è, al solito, la più facile. Più difficile è proporre rimedi efficaci e realisti. «Bisogna allearsi con quelle aziende che non hanno nell’economia dell’attenzione il loro modello»; in fondo, nota Harris, le multinazionali «non guadagnano se passi più tempo sui loro siti ma se compri i loro prodotti. Dobbiamo quindi convincerli a rispettare di più il consumatore» e a non considerare il cellulare una specie di slot machine tascabile.
Le applicazioni che l’ingegnere ha in mente dovrebbero scoraggiare gli eccessi. Tipo: «Negli ultimi dieci minuti hai guardato il telefono cinque volte: rallenta» (uno studio, calcolando ogni carattere digitato, dice che lo tocchiamo 2617 volte al giorno), alla maniera delle avvertenze sui pacchetti di sigarette. Resta poi la risorsa di una maggiore consapevolezza tra i consumatori. Harris mostra la configurazione del suo telefonino, a cui ha volutamente tolto i colori. Sulla prima schermata appaiono solo pochissime applicazioni su uno sfondo nero. «È come se avessi tolto le stagnole colorate dalle caramelle, per renderle meno desiderabili» dice, ricordando che il motivo per cui quasi tutte le notifiche sono rosse è perché quella tinta attiva una risposta cerebrale immediata. «Poi ho disabilitato le notifiche, vere armi di distrazione di massa, e uso il più possibile la modalità “non disturbare” che solo un ristretto circolo di persone è autorizzata a superare». La logica è semplice: ristabilire che avere uno smartphone non costituisce un invito erga omnes a violare costantemente l’attenzione del suo proprietario. E tenere presente che nella rete l’apparenza può essere molto, molto diversa dalla sostanza. Mai dimenticare — scrive David Randall sull’ultimo numero di «Internazionale» — che dietro un grazioso volto di donna «può esserci un camionista di Düsseldorf».
(Cristian Martini Grimaldi), L'Osservatore Romano, 2-3 febbraio 2018
Comincia così un lungo articolo dal titolo «Domande difficili: passare il nostro tempo sui Social fa male?», scritto da David Ginsberg e Moira Burke, entrambi ricercatori di Facebook che rispondono a molte delle critiche sull’uso dei social emerse dal dibattito pubblico. Ma non è la prima volta che impiegati o ex impiegati del colosso californiano facciano un mezzo “outing” denunciando in qualche modo i limiti delle reti sociali.
Già Sean Parker, fondatore di Napster ed ex presidente della multinazionale, aveva sostenuto che Facebook è strutturato per trarre vantaggio dalle fragilità psicologiche delle persone. Antonio Garcia-Martinez, ex manager di Facebook e autore di diversi saggi sull’argomento ha più volte ripetuto che l’azienda nasconde di proposito la sua reale abilità di condizionare le persone.
Ginsberg e Burke fanno invece una analisi dei pregi e difetti dell’uso dei social partendo da diversi studi scientifici. Ci ricordano per esempio che lo psicologo Sherry Turkle afferma che i telefoni cellulari ridefiniscono le relazioni moderne, rendendoci «da soli stando insieme». Interessanti anche le analisi sugli adolescenti dello psicologo Jean Twenge, che nota un aumento della depressione adolescenziale direttamente proporzionale all’aumento dell’uso della tecnologia.
Ovviamente, secondo gli autori, non mancano gli aspetti positivi. Lo studio degli spazi pubblici del sociologo Keith Hampton suggerisce che le persone trascorrono più tempo all’aperto ora che non dieci anni fa e che i telefoni cellulari sono maggiormente usati da coloro che spendono comunque gran parte del proprio tempo da soli.
«Vogliamo che Facebook sia un luogo in cui interagire in modo significativo con amici e familiari, migliorando le relazioni offline. Dopotutto, questo è ciò che Facebook ha sempre fatto», affermano nel lungo post. Per corroborare questa affermazione citano diversi studi, tra i quali una ricerca che afferma che tutto dipenderebbe da come viene utilizzata la tecnologia. Per esempio, sui social media possiamo scorrere passivamente quello che appare sul nostro schermo, proprio come si fa spesso con lo sguardo catatonico perso davanti la tv, o interagire attivamente con gli amici: pulsanti di approvazione (Like) messaggistica e commenti vari ai post altrui. «Proprio come nella realtà — scrivono i ricercatori di Facebook — interagire con le persone a cui tieni può essere utile, mentre semplicemente osservare gli altri “da bordo campo” può farti sentire peggio».
In questo c’è certamente del vero ma non una sola parola sul fatto che nella vita reale la gente commenta e approva a prescindere dal fatto che l’altra persona ci approvi (o ci “segui”) a sua volta, perché non si può glissare sul fatto che il maggior numero di like vengono collezionati da coloro che a loro volta distribuiscono like (basta aprire un account Instagram per capirlo): insomma sia il commento che l’approvazione fatti online soccombono alla norma non scritta del do ut des, che raramente detta legge invece in un dibattito pubblico, fosse un’aula di scuola, di università o anche al bar.
Il male secondo gli autori sono piuttosto le “notizie” consumate passivamente: leggere ma non interagire con le persone. Ci permettiamo di sostenere che su questo davvero non ci sono prove, tanto che l’affermazione contraria suona infatti altrettanto plausibile: rispondere a commenti inappropriati o peggio insulti fa stare molto peggio, come sanno bene i tanti personaggi pubblici che con i social hanno chiuso ogni rapporto pena la propria salute mentale.
In breve, concludono gli autori, «la ricerca e altre pubblicazioni accademiche suggeriscono che tutto dipende da come si utilizzano i social media», un’affermazione che può apparire uno scarico delle colpe sugli utenti non fosse che i ricercatori aggiungono anche che «Facebook sta lavorando perché il nostro tempo online venga speso per interazioni sociali significative, e per trovare nuovi modi per ottenere un impatto positivo sulla vita delle persone». Gli autori affrontano anche il problema della distrazione digitale e l’impatto che la tecnologia ha sui più piccoli.
«Sappiamo che le persone sono preoccupate di come la tecnologia influisce sulle nostre capacità di attenzione e sulle nostre relazioni, così come sugli effetti sui bambini nel lungo periodo. Siamo convinti che queste sono domande estremamente importanti e abbiamo ancora molto da imparare», scrivono nel loro post. Non a caso Facebook ha promesso di stanziare un milione di dollari per una ricerca rivolta a capire meglio il rapporto tra tecnologie dei media, sviluppo giovanile e benessere.
«Stiamo anche facendo investimenti per comprendere meglio la distrazione digitale e i fattori che possono allontanare le persone dalle importanti interazioni faccia a faccia»: detta da due importanti ricercatori proprio di quell’azienda che il faccia a faccia ha contribuito grandemente a ridurlo, questa affermazione dovrebbe far riflettere profondamente.
Armi di distrazione di massa
«Se un servizio è gratis, allora il prodotto sei tu» recita un adagio ormai molto comune nella Rete. Un dato acquisito a livello teorico ma, di fatto, una realtà di cui non è facile avere piena consapevolezza. Effetti collaterali negativi compresi. A questo tema «il venerdì» di «Repubblica» ha dedicato un dossier di approfondimento in cui Riccardo Staglianò intervista Tristan Harris, una sorta di guru della disconnessione programmata, «la cosa più vicina a una coscienza che abbia la Silicon Valley», come l’ha definito la rivista statunitense «The Atlantic». Harris è un ingegnere trentenne che, dopo aver venduto la sua nuova impresa nel 2011 è entrato a Google, scrivendo il saggio A Call to Minimize Distraction & Respect Users’ Attention.
Negli anni successivi si è dedicato allo studio di questo tema, convinto che la diffusione del digitale stia diventando una fonte di disagio per molte persone. Il problema — scrive Staglianò nel suo articolo, intitolato «Mi pento di tutti i miei like» — è ben più vasto della somma delle sue parti (la posta elettronica invadente, i gruppi di conversazione a cui qualcuno ci ha proditoriamente iscritto, le notifiche delle applicazioni e via interrompendo). È sociale, politico in senso letterale, e ha a che fare con i modi in cui le piattaforme digitali estraggono valore dai loro utenti. In altre parole riguarda l’economia dell’attenzione, in cui i pubblicitari si contendono ferocemente, anche solo per qualche minuto, il nostro spazio mentale, per venderci indifferentemente prodotti o candidati. Per dirottare il nostro flusso di pensieri e portarlo dalla loro parte, che lo vogliamo o no, che ce ne accorgiamo o meno. Per dimostrare che non si tratta di allarmismo esagerato, basta tenere presente il fatto che solo Facebook ha due miliardi di iscritti, che si connettono anche oltre cento volte al giorno. La pars destruens è, al solito, la più facile. Più difficile è proporre rimedi efficaci e realisti. «Bisogna allearsi con quelle aziende che non hanno nell’economia dell’attenzione il loro modello»; in fondo, nota Harris, le multinazionali «non guadagnano se passi più tempo sui loro siti ma se compri i loro prodotti. Dobbiamo quindi convincerli a rispettare di più il consumatore» e a non considerare il cellulare una specie di slot machine tascabile.
Le applicazioni che l’ingegnere ha in mente dovrebbero scoraggiare gli eccessi. Tipo: «Negli ultimi dieci minuti hai guardato il telefono cinque volte: rallenta» (uno studio, calcolando ogni carattere digitato, dice che lo tocchiamo 2617 volte al giorno), alla maniera delle avvertenze sui pacchetti di sigarette. Resta poi la risorsa di una maggiore consapevolezza tra i consumatori. Harris mostra la configurazione del suo telefonino, a cui ha volutamente tolto i colori. Sulla prima schermata appaiono solo pochissime applicazioni su uno sfondo nero. «È come se avessi tolto le stagnole colorate dalle caramelle, per renderle meno desiderabili» dice, ricordando che il motivo per cui quasi tutte le notifiche sono rosse è perché quella tinta attiva una risposta cerebrale immediata. «Poi ho disabilitato le notifiche, vere armi di distrazione di massa, e uso il più possibile la modalità “non disturbare” che solo un ristretto circolo di persone è autorizzata a superare». La logica è semplice: ristabilire che avere uno smartphone non costituisce un invito erga omnes a violare costantemente l’attenzione del suo proprietario. E tenere presente che nella rete l’apparenza può essere molto, molto diversa dalla sostanza. Mai dimenticare — scrive David Randall sull’ultimo numero di «Internazionale» — che dietro un grazioso volto di donna «può esserci un camionista di Düsseldorf».
(Cristian Martini Grimaldi), L'Osservatore Romano, 2-3 febbraio 2018