In Etiopia tra i giovani che sognano l’Europa: “Qui non abbiamo speranza. Per partire bastano i soldi”
Nella provincia di Bale i migranti si affidano ai trafficanti. E in molti spariscono
«Ehi tu, ferenji. Quanto vuoi per portarmi in Italia?». Un militare guarda un commilitone, sputa a terra una foglia di qat (pianta con proprietà anfetaminiche consumata per ingannare fame e stanchezza) e scoppia a ridere. È ad Agarfa, un villaggio di qualche migliaia di persone nella provincia di Bale, a 450 km da Addis Abeba, in Etiopia, per presiedere allo spettacolo sui migranti organizzato dalla onlus italiana Ccm nell’ambito della campagna di informazione sui rischi delle partenze irregolari. Ferenji in amarico (la lingua ufficiale dell’Etiopia) significa straniero, e lo straniero in questo caso sono io. A pochi metri di distanza Mohammed, l’imam locale, chiede di prendere la parola. «Di quattro figli - dice trattenendo a stento le lacrime - non so più nulla. Scomparsi. Li avevo avvertiti di non andare». Intorno le donne si nascondono dietro il velo, molte piangono a dirotto. Le frasi di Mohammed qui sono come macigni.
Mentre l’Unione europea cerca una soluzione insieme al governo di Tripoli per fermare i flussi e sigillare la rotta del Mediterraneo, in Bale il tema delle migrazioni è sulla bocca di tutti. Chi vuole partire, chi ha parenti in Europa, Stati Uniti o Paesi arabi, chi li ha bloccati nei centri di accoglienza in Libia, chi ha tentato il viaggio ed è stato respinto e chi invece piange qualcuno che non ce l’ha fatta. Secondo l’Unhcr la posizione geografica e gli sviluppi geopolitici del Corno d’Africa (Addis Abeba è considerata l’unica capitale stabile della Regione) hanno contribuito a sviluppare il fenomeno migratorio in Etiopia e dal 2015 le stime parlano di un flusso crescente sia in uscita (sono circa 740 mila gli etiopi che vivono fuori dal loro Paese, di cui 8 mila in Italia, fonte Iom) sia in entrata (l’Etiopia è il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati in Africa, oltre 670 mila persone, ammassate nei campi profughi al confine con Eritrea, Sud Sudan e Somalia). In tale contesto il Bale è una delle aree con il più alto tasso di emigrazioni.
Sui bajaj (detti anche tuc tuc) che sfrecciano tra le vicine città di Robe e Goba spiccano le immagini di Balotelli. Non importa che l’ex azzurro sia nato a Palermo e abbia origini ghanesi. Quel che conta è che ha la pelle nera, e che ha avuto successo. «La gente se ne va perché non c’è lavoro», spiega Abdulkadir Gazali, 39 anni, cinque figli e tre tentativi di fuga in Arabia Saudita («Mi hanno sempre rispedito indietro», dice).
All’apparenza partire è semplice, basta pagare. Il signor Waldayese, incaricato all’immigrazione presso l’assessorato agli Affari sociali della provincia di Bale, racconta che «raggiungere un Paese arabo costa all’incirca 400-600 euro». Per l’Europa il prezzo sale, fino a 4 mila euro. Tutto illegale, ovvio. «I giovani – spiega ancora Waldayese – racimolano il denaro vendendo animali o lavorando nei campi». Non a caso il periodo di maggiore esodo è dopo il raccolto di caffè, nei primi mesi dell’anno. In alcuni casi sono i parenti stessi a finanziare il tutto. O chi ha già compiuto l’impresa, senza fallire. Sì, perché se alcuni ce la fanno di molti altri si perdono le tracce. Scomparsi. Inghiottiti dal mare. Uccisi dalla sete in mezzo al deserto o massacrati di botte dai trafficanti. Qui li chiamano «dallala». Nonostante in Etiopia rischino la pena di morte, trovarne uno è abbastanza semplice.
La rete criminale arriva ovunque, fino nei villaggi più remoti. Funziona così: un «broker» mette l’aspirante migrante in contatto con il «dallala» ad Addis Abeba, il quale gli fa avere i documenti e in base a dove vuole andare gli trova un altro contatto in loco. Per i Paesi arabi le tappe sono Gibuti, Yemen e Arabia Saudita. A Obock, cittadina di pescatori sulla sponda settentrionale del Golfo di Aden, quello dei migranti è un business milionario. Per chi vuole raggiungere l’Europa il procedimento è più complicato. Da Addis Abeba i «dallala» organizzano il viaggio fino a Metema, al confine con il Sudan, dove i migranti vengono affidati ad altri trafficanti per la traversata del deserto. Saranno poi i libici a portarli fino alle coste del Mediterraneo dove gli scafisti li ammasseranno sui barconi per la traversata della speranza.
«In Bale - racconta Stefano Bolzonello, capo progetto del Ccm - cerchiamo di ridurre al minimo le cause dell’immigrazione irregolare attraverso azioni di sensibilizzazione, come lo spettacolo ad Agarfa. Inoltre insieme a Coopi (onlus con sedea Milano, ndr) incentiviamo lo sviluppo di microimprese per aumentare le opportunità d’impiego dei giovani». Radiya Abadar, 28 anni, è una delle ragazze che ha potuto godere del progetto: «Nel 2010 ero migrata in Kuwait - racconta -. Mi avevano detto che si guadagnava bene. Sono finita a fare la serva per 100 euro al mese. Ho cambiato quattro famiglie: tutte uguali. Passaporto sequestrato, botte e nessuna libertà. Mi chiamavano kaddama, schiava».
Pubblicato il 13/02/2017
(ENRICO CAPORALE su www.lastampa.it)