Il prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, nunzio apostolico nel Paese mediorientale tra il 2001 e il 2006, a IlFattoQuotidiano.it: "Sia nella Prima sia nella Seconda guerra del golfo i nunzi sono rimasti al loro posto e ciò diede enorme credibilità al ruolo della Chiesa"
“È nelle intenzioni di Papa Francesco andare in Iraq e senz’altro credo che lo farà. Anche se il momento opportuno adesso non posso prevederlo perché tutti comprendono che questo è un tempo ancora molto problematico per il Paese”. Non ha dubbi il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il “Papa rosso” come viene chiamato nel gergo vaticano chi ricopre il suo ruolo a causa delle grandi responsabilità di colui che guida il dicastero di “Propaganda fide“. Il porporato pugliese, in una conversazione esclusiva con IlFattoQuotidiano.it in occasione dell’uscita del suo libro “La chiesa in Iraq” (Libreria editrice vaticana), ripercorre le sue due recenti missioni nel Paese, dove è stato anche nunzio apostolico dal 2001 al 2006, a nome di Papa Francesco.
Eminenza, cosa ha trovato in Iraq?“È un Paese composto da diverse nazionalità etnico religiose con profonde divisioni tra loro. Divisioni che spesso alimentano delle vere e proprie guerre. La parte Sud è profondamente sciita. Non si può pensare che l’Iran possa rinunciare all’influenza di queste terre. È come se gli ebrei rinunciassero a Gerusalemme o i cattolici a Roma. Andando più su ci sono zone miste sunnite e sciite. Nella parte Occidentale troviamo, invece, antiche tribù sunnite e a Est e a Nord la presenza dei curdi ma anche dei cristiani. C’è una realtà molto composita e in questo mosaico se non ci si mette d’accordo gli uni con gli altri non si avrà mai la pace che è la condizione fondamentale per lo sviluppo del Paese”.
Il recente accordo sul nucleare iraniano quanto può aiutare la pace in Iraq?“Non dimentichiamo che l’ultima raccomandazione di Saddam Hussein prima di morire fu: “Attenti all’Iran”. In linea di principio non si può negare a nessuno l’uso dell’atomo a livello pacifico. Il problema nasce dal momento in cui politicamente si possa farne uso. Da un lato c’è il Pakistan con la bomba atomica e quindi anche l’Iran pensa ad avere qualcosa. Oggi l’Iraq non può essere considerato un nemico atomico. L’uso pacifico in linea di principio non gli si può negare, ma l’arma nucleare diventa problematica perché aggrava tutta la situazione del Medio Oriente”.
Quando era nunzio in Iraq lei è rimasto lì anche sotto i bombardamenti della Seconda guerra del golfo. Perché?“Devo dire che sia nella Prima sia nella Seconda guerra del golfo i nunzi sono rimasti al loro posto e ciò diede enorme credibilità al ruolo della Chiesa. Il popolo iracheno vide che la comunità cattolica, nonostante fosse piccola e minoritaria, non aveva comportamenti contradditori con un Occidente che poteva essere definito cristiano e un Medio Oriente invece musulmano. La stessa cosa avvenne nella Seconda guerra del golfo. Anche se nella Prima qualche vescovo e sacerdote sparirono dalla circolazione, io dissi che dovevamo rimanere tutti e tutti siamo rimasti o a Baghdad o in Iraq”.
Come avete aiutato la popolazione?“Avevamo dato a disposizione tutte le chiese che la sera erano aperte come anche il seminario e la gente veniva con i materassini a trascorrervi la notte per paura dei bombardamenti. Tutti i luoghi di culto erano aperti e ospitavano sia i cristiani, sia i musulmani. Le stesse piccole istituzioni assistenziali cattoliche, penso al piccolo Ospedale san Raffaele, sono rimaste sempre aperte. Non avevano la possibilità di curare i feriti, ma erano presi d’assalto soprattutto dalle partorienti”.
Ha mai avuto paura di morire?“Quando ci si trova in queste situazioni la paura non è quella di morire. Scherzando dicevo alle mie suore, quando due volte i missili sono caduti a qualche centinaio di metri dalla sede della nunziatura dove stavamo con grandi rumori e grandi conseguenze, come la rottura dei vetri, che finché sentiamo il rumore vuol dire che siamo ancora vivi. Se non sentiamo il rumore vuol dire che siamo già partiti quindi non ci preoccupiamo più. Era una battuta per abbassare un po’ la tensione. Noi non potevamo permetterci di vivere fuori dalla grande paura del popolo iracheno”.
- Il Fatto Quotidiano, 29/07/2015